Una vita passata a entrare in carcere, lasciando fuori il giudice: non il magistrato, ovviamente, ma la tentazione di giudicare le persone che ti trovi davanti, inchiodate alla loro colpa e impedite di vedere il proprio riscatto. Enrico Rigosa è partito tanti anni fa da Collebeato (Brescia) alla volta del Perù con l'Operazione Mato Grosso.
Un fatto ha cambiato la sua vita: l'uccisione il 18 marzo 1997 del parroco padre Daniele Badiali di Faenza, ora servo di Dio, per il quale è in atto la causa di beatificazione. «Questo martirio sconvolse la nostra vita e come papà mi chiesi cosa dire alle nostre figlie, ai giovani del paese, alla gente che tanto voleva bene a padre Daniele. Capii che non c'era niente da dire, ma qualcosa di urgente e importante da fare: provare a rispondere al male con il bene».
Da quel momento ha deciso di seguire con assiduità l’opera di carità di visitare i carcerati (compreso chi aveva ucciso padre Daniele), declinandola in modo originale: insegnando a comunicare attraverso l’arte.
«Quello che cerco di fare è aiutarli a scoprire Dio attraverso i talenti artistici, insegnando loro il disegno, la pittura, lo sbalzo in alluminio». Il viaggio tra i carcerati di Enrico da allora non si è più fermato. «Ho molto bisogno del vostro aiuto per continuare a realizzare questo in alcune carceri di Lima».
Quello che ci è chiesto è di non interrompere il fiume della carità e tenerlo sempre legato alla fiducia nell'uomo, nei poveri, negli ammalati, nei carcerati. Per mostrare quella grande sorpresa che si nasconde dietro ogni dono: Dio, che è la sorpresa più grande che si possa immaginare.
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