A più di vent'anni dal genocidio ruandese le cicatrici ci sono ancora. «Basta venire qui per comprendere che la guerra è la madre di tutte le povertà», racconta monsignor Philippe Rukamba, vescovo della diocesi di Butare. Oggi molti giovani sono figli degli orfani di quei terribili cento giorni che, nel 1994, hanno visto uno scontro feroce tra le etnie degli Hutu e dei Tutsi. Altri provengono da famiglie che hanno sofferto la conflittualità inter etnica. Tutti vivono in condizioni di precarietà in una società ancora fragile, privata della fiducia nell'uomo e nel futuro. A contribuire alla speranza è l’istruzione, attraverso la quale ragazzi e ragazze possono diventare consapevoli della propria storia e delle proprie radici.
Ma, proprio a causa dell’indigenza ereditata dal conflitto, non tutti hanno la possibilità di frequentare la scuola. Monsignor Rukamba lancia un appello per aiutare i giovani più disagiati a pagare la retta scolastica: «Solo conoscendo ciò che è stato i giovani potranno contribuire a costruire una società effettivamente rinnovata e riconciliata». In modo da scalzare gli spettri di un possibile ritorno al passato.
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